Fin da bambina, per parlare disegnavo; ho scoperto di avere in me un dono: esso c’era e mi faceva compagnia continuamente. Questo fatto dominante è sempre emerso dal mio fare, e quando non disegnavo, guardavo il mondo come se stessi disegnando: nel momento in cui scoprivo un fiore in un campo o guardavo una foglia secca, i miei occhi vedevano un segno di perfezione che tanto mi commuoveva.
Un grande dolore mi ha accompagnato in questo cammino fino al momento in cui è capitato un fatto straordinario. Ho incontrato una persona che con una carezza sul capo mi ha fatto alzare lo sguardo da terra verso ciò che io avevo davanti: io avevo davanti Paolo, ora mio marito, ma tutto di lui, i suoi gesti, il suo sorriso, i suoi occhi... mi parlavano di qualcuno che io ancora non conoscevo ma che attendevo da sempre. Io mi sono innamorata di lui con una ferita nel cuore. Quell’amore vivo che ogni giorno si presentava a me, mi svelava drammaticamente un altro volto: il volto di Cristo.
Nella compagnia con Mauro Moscatelli, un’artista riminese, ho cominciato a concepire il mio lavoro artistico come un vero lavoro, ho potuto fare un percorso di conoscenza attraverso il disegno, e successivamente attraverso la pittura, ripartendo dallo studio del volto e del suo significato: il volto che guardo, mi guarda, e in un rapporto affettivo, mi accompagna a guardare la realtà così come essa si presenta, generando in me stupore, commozione, lotta, contrasto, pianto, fino all’emergere di una domanda sempre più drammatica sul senso dell’esistenza.
Ricomprendere cos’è per me guardare è proprio un fatto interessante, che mi appassiona. Con questa sete ho incontrato Roberto Filippetti: lui curava la mostra della Cappella degli Scrovegni che era stata ricostruita, nel 2008, nella Chiesa dei Greci Uniti a Livorno; mentre Roberto guardava, accogliendo, paragonava sé con ciò che aveva lì davanti agli occhi. Seguendo tale metodo - perchè rispondeva alla mia esigenza sì di guardare, ma soprattutto di esserci - io mi sono immedesimata in Giotto ed ho guardato le persone da lui ritratte, uscite vive, di carne dalla sua mano, in un modo nuovo: esse parlavano a me, proprio a me in quell’istante. Questo cammino di conversione dello sguardo ha generato amicizia tra di noi ed una compagnia viva anche nel lavoro.
“Volti che esplodono di colore, che mangiano la tela e invadono l’ambiente....”: il colore consente un dialogo immediato, crea un imbarazzo, un fastidio, una “ferita”; esso mi conduce insieme alla forma e mi dice del bene che c’è (il giallo è la luce, il rosso è il dramma, la carne, la passione, il blu è dialogo con l’infinito); sono come parole che risuonano in me ed annunciano al mondo la risurrezione di Cristo. Con tratti fluidi che escono da quel pezzo di legno bruciato, estremamente fragile, con il quale disegno, dico di un fatto che c’è: non lo devo costruire io attraverso un progetto o una teoria, ma lo incontro mentre lavoro. Io dentro a questa vocazione sono chiamata a riconoscere Cristo che viene anche in quella macchia di rosso, in quel tratto nero, e a testimoniarLo attraverso la mia vita, attraverso questo dono, che quel giorno, in quell’istante, mi è stato consegnato.
Lara Leonardi - 3 gennaio 2012
Tu
che mi ri-guardi
di Roberto Filippetti
«Il cambiamento che vorrei provare a fare nella mia pittura è quello di far più figure, più ritratti…
È la sola cosa che mi emozioni fino in fondo, e che mi faccia sentire, più di tutto il resto, l’infinito. Ho molta fiducia quando faccio i ritratti, sapendo che questo lavoro è molto più serio. Forse non è il termine esatto, ma è piuttosto quello che mi permette di educare ciò che ho di meglio e di più serio […].
Con un quadro vorrei poter esprimere qualcosa di commovente come una musica.
Vorrei dipingere uomini e donne con un non so che di eterno, di cui un tempo era simbolo l’aureola, e che noi cerchiamo di rendere con lo stesso raggiare, con la vibrazione dei colori [...].
Ah il ritratto, il ritratto che mostri i pensieri, l’anima del modello: ecco cosa credo debba vedersi».
Vincent Van Gogh, Arles, 3 settembre 1888
Cosa succede stando davanti ai volti dipinti da Lara Leonardi? Succede appunto di “stare”. Tu stai, ti sorprendi a stare, a non poter correre, scorrere da un quadro all’altro, in fretta. Ti inchiodano i colori-calamita; t’incanta la resa della mimica facciale, dell’espressione di quel volto in quell’istante (la densità dell’istante); infine fissi lo sguardo in quegli occhi-finestra, varco per andare al cuore, dentro, nella profondità di persone magari sconosciute ma ora conosciute: ne intuisci i pensieri, l’anima. Ti sorprendi a stare non più davanti, ma dentro, in mezzo:
inter-esse.
Persone conosciute, con un nome, intuito o esplicitato nel titolo: Angelina, Luigi, Juliàn, Erasmo, Serena, Caterina, Lara, Emma... Persone ben individuabili; ma persone, non
in-dividui, non
a-tomi (parole perfettamente corrispondenti, in latino e in greco, per definire un essere, certo indivisibile, ma “diviso” dagli altri: ultimamente solo come un cane randagio).
Per-sona è la maschera del teatro latino che mentre vela il volto dell’attore ne rivela il ruolo dentro il dramma; una maschera con quella gran bocca-megafono
per la quale
sonat, risuona (
per-sonat) la voce. Persona: una parola che dal lessico teatrale passa a quello teologico cristiano, ad indicare le tre persone della Trinità, la comunione trinitaria: Cristo vela e rivela il volto del Padre. “Chi vede me, vede il Padre” (Gv 14,9). Il Padre misericordioso: questo ha visto la Maddalena negli occhi di quel giovane uomo di nome Gesù. È fiorito così in lei il TIMOR DI DIO: non la paura di fronte al
Rex tremendae maiestatis, freddo contabile dei tanti peccati in cui si è dissipata, ma l’amoroso timore colmo di gratitudine a “Quei che volentier perdona”, come dice Dante. Nel TIMOR DI DIO Gesù non lo vediamo, ma lo “sentiamo” attraverso gli occhi della Maddalena, così plasticamente calamitati da Lui da apparirci – letteralmente – esorbitanti.
Ciò che è accaduto duemila anni fa, riaccade lungo la storia fino ad oggi, per opera dello Spirito Santo che ti si fa
in-contro, ovvero ti attrae (
in-) e ti ferisce (
-contro) nel volto del carisma: guardi PADRE E FIGLIO col cuore colmo di commossa gratitudine. Un quadro commovente come una musica. Guardi COME MARIA, e ti è dato di capire: in questa giovane donna oggi, come in Maria quando l’angelo Gabriele partì da lei, «è scaturito un sentimento di sé profondo, misterioso: una venerazione di sé, un senso di grandezza pari soltanto al senso del suo niente a cui non ha mai pensato così». Il mio niente graziato. La mia miseria esaltata.
È la
ri-creazione del volto: la persona, creata a immagine e somiglianza con Dio, dunque portatrice di una dignità inalienabile, ora tutta ricreata e lieta attraverso il sì di Maria. Drammaticamente lieta: vedi che CATERINA CANTA, cantava, e ora ride e si commuove in silenzio dal letto del dolore; ri-guardi COME MARIA, e ti colpisce quel dettaglio, quella crocettina al collo, di colore blu cielo, blu manto di Maria. Nell’Incarnazione è prefigurata la croce, ma non disperante, perché è pasqua, passaggio verso la gloria del cielo.
Con la coda dell’occhio su PADRE E FIGLIO e su COME MARIA ti è dato di capire LA FAMIGLIA: come duemila anni fa una cometa si posò su quella capanna e loro – i Magi – adorarono il Re dei re, così Erasmo e Serena abbracciano il misterioso principino regalmente incoronato. Bambino mio, tu vali! Hai un volto che somiglia all’Infinito.
LA FAMIGLIA: che non sia questa la “parola-chiave” per aprire lo scrigno del lavoro di Lara? Al fondo del singolo volto dipinto c’è la
familiarità: la confidente intimità che genera nella carne e rigenera nell’esperienza dell’essere guardati. E che, per osmosi, insegna a guardare.
Anni ’30. Una giovane mamma porta il piccolo Luigi alla prima messa, sul far del giorno. Nell’azzurro terso squilla la stella del mattino. Lei si ferma e, di schianto, esclama: “Com’è bello il mondo e come è grande Dio!”. Quella donna si chiamava ANGELINA. Angelina Gelosa. Suo figlio Luigi diventerà padre di un grande popolo. E adotterà un figlio: PADRE E FIGLIO. Entro questo abbraccio, Lara accompagna la propria figlia ogni mattina a scuola e le ripete quasi come una giaculatoria: “Com’è bello il mondo e come è grande Dio!”. :
Ri-petere è domandare di nuovo per avere, per possedere. Lara le ripete, queste parole, «facendole diventare talmente :
familiari che – mi confida – non dirle è un dolore». Il dolore dell’estraneità. Che gratitudine profonda, invece, quando ci si sorprende a guardare cose e persone vedendo che tutto c’entra con le stelle. :
Familiarità del reale, di tutti e di ciascuno: il soldato e il poeta, la madre e la sposa, Elisa e Nicoletta, Alberto e Benedetta. Radiosi uomini e donne con un non so che di eterno, che la pittura cerca di rendere con la vibrazione dei colori.
In tutti c’è una grandezza, una dignità, una santità senza aureola (vengono in mente le mele di Cézanne): tu guardi e fiorisce facile il
ri-spetto, cioè il
ri-guardo. È un’arte che invita a «pulire lo sguardo» per imparare a vedere la misteriosa profondità di cose e persone. Così ciò che abbiamo di meglio – sia lei che dipinge sia io che osservo – viene educato non moralisticamente ma per via affettiva. Perché vale la pena, conviene, “corrisponde”; perché così è tutto più bello.
Lara concepisce e partorisce ogni opera. La riceve come un dono immeritato, da custodire e subito condividere. L’ho capito leggendo questa sua confessione: «Il vostro quadro sta esplodendo, vive già in me e vuole uscire. Prego Dio di esser pronta ad accoglierlo».
Lara
ri-trae: trae fuori di nuovo – in modo nuovo – il volto umano. E volto, se è vero che deriva dalla radice
gvol che significa splendere, è il luogo in cui rifulge, coloratissima, la suprema Bellezza di Colui che si è manifestato come via alla verità della vita.
Colori-calamita, si diceva all’inizio; dipinti connotati dalla forte accensione cromatica e dalla presa immediata, per i quali vale oggi quanto scriveva Henri Matisse un centinaio di anni fa: «i nostri quadri parlano immediatamente col bel blu, col bel rosso, col bel giallo, con sostanze elementari che frugano l’anima umana nel suo profondo». Matisse e i suoi amici vennero chiamati
fauves, belve, a motivo di quelle masse di colori campite
à plat entro spazi definiti da linee taglienti che aggrediscono ferocemente la vista. Anche nelle tele scolpite da Lara i colori “mordono”: appaiono stesi a dense pennellate in toni puri, ovvero saturi, smaglianti e intensi, squillanti e vividi. Sono colori espressionisticamente giocati con violenza, nel contrasto tra complementari e primari. Matisse in
Donna col cappello, del 1905, «usa riflessi e ombre colorate per trasformare l’incarnato del viso in un gioco di sfumature e di contrasti dettati da una continua invenzione» (Marco Vianello); Lara compie oggi la stessa operazione ad esempio in EMMA AL SOLE.
Ma mentre quasi tutti i pittori europei della corrente fauve-espressionista procedevano verso la
perdita del centro (imperdibile libro di Hans Sedlmayr!), lungo una linea totalmente laica e immanentistica, nel senso che le icone e le campiture cromatiche non volevano rimandare a null'altro che a sé stesse, Lara lo ha ritrovato, il Centro. Pertanto, nella vita come nella pittura, lei è intensamente aperta al Mistero, «perché tutte le immagini portano scritto: più in là» come cantava Montale. Soggetto ricorrente nelle opere degli Espressionisti era il ritratto: individui pensosi, riflessivi, gravati da disperante
melancolìa, cioè umore nero. Nei volti di Lara c’è invece «quella eterna santa tristezza che qualche anima eletta, una volta che l’abbia assaporata e conosciuta, non scambierà poi mai più con una soddisfazione a buon mercato» (F. Dostoevskij): una santa tristezza che paradossalmente dà ai volti la forma della ridente letizia.
E siamo al culmine dell’autocoscienza e della conseguente esperienza creativa di Lara: LA LACRIMA. Immedesimiamoci. Lara, col camice macchiato di colore, sembra un’installazione informale in movimento. Sta lavorando sul volto di quel vecchio prete. In sottofondo Tito Schipa sta cantando parole celeberrime, da
L’elisir d’amore di Donizetti: «Una furtiva
lagrima». A Lara viene in mente quell’altra romanza, tratta da
La favorita di Donizetti, cantata anch’essa dalla voce vibrante di Tito Schipa, che tanti anni fa travolse quel giovane di prima Liceo, Luigi Giussani: «Spirto gentil de’ sogni miei». Passano gli anni e don Giussani, ormai maturo prete, partecipa una sera ad una festa di fine anno. Una bella festa: cenano insieme, poi guarda ballare quei giovani. All’improvviso li ferma. «E loro si sono fermati un po' straniti e io ho detto loro: “C'è una differenza tra me e voi: voi, in questo bellissimo gioco, in questo gustoso movimento, in questo affezionato rapporto, avete un'ultima, terribile distrazione e non vi accorgete di un seme che è dentro questo vostro gioco, un seme di tristezza. Quando avrete finito, andrete a casa, vi direte "Ciao, arrivederci a domani", salirete nella vostra stanza e vi metterete a letto; allora questo seme – in quelli tra voi che conservano un minimo di sensibilità umana –, questo seme di tristezza vi pigerà, urgerà: come essersi sdraiati ed avere sotto le spalle un sasso. Questo seme, di cui non v'accorgete – che è all'origine del gusto del vostro ballo e della tristezza che emergerà, appena appena accennata e bruciata via dal sonno, quando andrete a letto – è un seme di malinconia; la caratteristica malinconia di qualche cosa che non è compiuto, di qualcosa che manca”. Io, in quella prima liceo, nel canto di Tito Schipa avevo proprio percepito il brivido di qualche cosa che mancava; qualcosa che mancava non al canto bellissimo della romanza di Donizetti, ma alla mia vita: qualcosa che mancava e che non avrebbe trovato soddisfazione, appoggio, compiutezza, risposta, da nessuna parte».
Lara, col camice macchiato di colore, adesso è ferma. È una statua. Sente la lacrima che furtivamente le riga il volto: questo brivido è lei, radiografata nell’anima. Ed insieme LA LACRIMA è lui, il vecchio prete che lietamente si è dato tutto, ha dato tutto a Cristo, ha dato tutto a lei. Ha educato in lei «una venerazione di sé, un senso di grandezza pari soltanto al senso del suo niente».
Misterioso paradosso: tristezza mendicante il Tu, e letizia per il Tu presente, che ci
ri-guarda da vicino.